
A seguire pubblichiamo alcuni estratti della testimonianza con cui Carmelo Musumeci, condannato all’ergastolo nel 1992, racconta il suo ingresso in carcere a regime di 41bis. Il testo è stato pubblicato da Il Dubbio, il 27 febbraio 2023.
A causa di una guerra fra bande rivali, per il predominio di attività illecite sul territorio versiliese, sono stato condannato all’ergastolo e nel 1992 sottoposto al carcere duro del 41bis, deportato in Sardegna, nell’Isola dell’Asinara. Ero arrivato all’isola con l’elicottero. Appena sceso, mi presero in consegna le guardie. Mi scaraventarono in una gabbia allestita provvisoriamente al centro del campo sportivo, davanti alla famigerata sezione “Fornelli”. Tre elicotteri volavano di continuo, facendo la spola da Porto Torres all’Asinara, per portare i detenuti nell’isola. Gli elicotteri finirono di scaricare carne umana soltanto verso sera. La gabbia era ormai piena all’inverosimile. Eravamo schiacciati come sardine. A un tratto le guardie si schierarono a destra e a sinistra, formando un corridoio che portava dritto dentro il carcere. Tra le mani brandivano scudi in plexiglass e manganelli. Mi guardai intorno. Ero già esperto di carcere. Immaginai subito cosa sarebbe successo. Ai prigionieri accanto a me sussurrai: «Appena aprono il cancello correte più veloce che potete e, qualsiasi cosa accada, non fermatevi fin quando non vi trovate chiusi in una cella!».
La maggioranza di loro era formata da detenuti mafiosi alla loro prima esperienza carceraria. Non erano delinquenti abituati fin da giovanissimi all’esperienza dei riformatori e delle carceri minorili come me. In seguito capii che i prigionieri mafiosi erano forti fuori, ma deboli dentro al carcere. In galera subiscono e non si ribellano quasi mai. Accanto a me c’era però un giovanotto grande e grosso, con l’aria sveglia. […] «Come ti chiami?». «Tiziano… so’ de Roma». Tiziano era alto e robusto, asciutto e tonico. Dava l’impressione di essere uno scaricatore di porto. Aveva i capelli corti, un testone da cinghiale e due occhi neri. Con un lieve cenno del capo gli indicai i detenuti che avevamo intorno. «Questi non ci saranno d’aiuto… non sono delinquenti, ma borghesi mafiosi, buoni per farci la birra. Quando usciamo dalla gabbia stiamo vicini per coprirci entrambi. Io mi chiamo Carmelo». […]
A un tratto aprirono il cancello. […] I detenuti iniziarono a uscire. I loro sguardi erano terrorizzati, mentre le guardie erano gongolanti. I primi a uscire furono bersagliati di manganellate. Io e Tiziano ci demmo un’occhiata e scattammo insieme. Scavalcammo anche i nostri compagni che erano già crollati a terra. Chi cadeva era perduto, veniva preso a calci e a pugni. Alcuni detenuti rimasero paralizzati e preferirono restare dentro la gabbia. Avrebbero preso più botte di tutti gli altri, scatenando ancor di più l’ira delle guardie. Io correvo piegato in due, con le braccia alzate per cercare di ripararmi dai colpi. […] A un tratto sentii una botta secca in testa, accompagnata da una tremenda fitta di dolore. Proprio mentre stavo per cadere mi sentii afferrare per il collo della maglietta. Era Tiziano che mi trascinava con sé. Arrivammo finalmente nel corridoio della sezione. Le celle erano già aperte. Man mano che si riempivano le guardie chiudevano il cancello e sbattevano il blindato.
Al volo mi infilai nella prima che vidi vuota. Ero talmente arrabbiato e dolorante che tremavo. Mi guardai intorno. L’aria sapeva di chiuso e di muffa. Più che in una cella mi trovavo in un pozzo nero. Una vera e propria tomba.
Le celle dell’Assassino dei Sogni (come chiamo io il carcere) dell’Asinara erano allocate nella parte meno illuminata della prigione. Mancavano l’aria e la luce. Dalla finestra della cella si poteva vedere solo una fetta di cielo, nella parte più alta. C’era una doppia fila di sbarre. Per completare l’opera, anche una fitta rete metallica. Tentai di non perdermi d’animo. Avevo un dolore al capo insopportabile. Mi accorsi che ero ferito alla testa e avevo la maglietta imbrattata di sangue. Strinsi i denti. Cercai con gli occhi il lavandino. Era vicino al gabinetto. L’acqua scendeva marrone. Mi avevano avvisato che non era potabile, ma non mi avevano detto che fosse così sporca. Lavai la ferita. Attraverso un pezzo di vetro murato sopra il lavandino, vidi che avevo una profonda ferita in testa e che sanguinavo anche da un sopracciglio. Pensai che avrei avuto bisogno di qualche punto in testa, ma decisi che non era il caso di chiamare nessuno. L’indomani alle otto in punto, una guardia passò per prendere i nomi di chi voleva andare al passeggio. Quando aprirono il blindato, vidi davanti a me quattro guardie con il manganello in mano. […] Una di loro mi urlò: «Mafioso di merda, girati e metti le mani appoggiate al muro». Mi venne voglia di rispondergli a tono, ma sarebbe stato un suicidio. Mi avviai in fondo al corridoio.
Dopo pochi passi, mi fecero entrare in un cortile, una gabbia di cemento armato coperta da una rete metallica a maglie strette che assorbiva la luce del cielo. Davanti a me trovai una decina di detenuti dall’aspetto spaventato, che mi fissavano. Chiesi se avevano intenzione di ribellarsi, ma mi accorsi subito che era una discussione con i sordi. Pensai subito che sarebbe stata la loro fine. Non mi sbagliai.
Nel giro di poche settimane i detenuti si sottomisero a qualsiasi angheria. E per le guardie divennero come dei giocattoli. Li torturavano, li annientavano e li umiliavano. […] Molti di loro, piuttosto che reagire, decisero di diventare “pentiti”. Anche mafiosi di un certo “spessore” arrivavano nell’isola e, dopo pochi giorni di quel trattamento, andavano via come collaboratori di giustizia.
A distanza di qualche settimana, mentre ero in doccia, subii un pesante pestaggio, perché c’ero stato più dei cinque minuti consentiti. Dopo mi scaraventarono nella liscia. L’indomani mi svegliai con un mal di testa tremendo. Mi passai la mano tra i capelli e trovai ferite e grumi di sangue dappertutto. Sentii la fronte zuppa di sangue e sprofondai nell’angoscia e nella tristezza. Mi misi faticosamente in piedi, sentivo il sapore del mio sangue in gola. Cercai a tastoni l’interruttore della luce. Si accese una fioca lampadina sul soffitto. Strizzai gli occhi per abituarli alla luce ed ebbi la forza di guardarmi intorno. Un grosso topo strofinava il muso nel sangue che avevo sputato. Provai a dargli un calcio, ma il topo fu più veloce di me e scappò da un buco della rete della finestra. […] Ero solo, disperato e isolato. La stanza era vuota, c’era solo una branda inchiodata al pavimento. Non c’era materasso, né lenzuola o coperte, non c’era nulla. Avevo una sete terribile. Mi rassegnai a sopportare il dolore e mi addormentai.
Alla sera aprii gli occhi, cercai d’istinto di alzarmi, ma vi rinunciai. Sentivo dolore dappertutto. Non avevo avuto neppure la forza di sdraiarmi sulla branda. Mi ero addormentato per terra come un cane. Pensai che mi avrebbero potuto mordere i topi e provai un brivido di paura. Poi, però, pensai che era sciocco avere paura dei topi. C’era da avere più paura delle guardie. Sentivo tutte le ossa rotte e sudavo freddo. Cercai di mettere ordine in testa, ma non ne fui capace. Non riuscivo a pensare. Avevo la gola secca. E avrei dato qualsiasi cosa per un bicchiere d’acqua.
A un tratto sentii alcuni rumori provenire dal corridoio. Avvertii un senso di paura, riflettei se valesse la pena alzarsi. Alla fine decisi di no. Se le guardie mi volevano di nuovo picchiare, non avrei potuto opporre alcuna resistenza. Sentii girare le chiavi nella serratura del blindato. Entrarono quattro guardie e un medico con il camice bianco. Gli sbirri mi guardarono con occhi indifferenti. Il dottore mi fece sdraiare sulla branda. Vidi lo sguardo di un macellaio quando affetta la carne. Aveva i capelli bianchi, barba da capra e occhi da volpe. «Come ti senti?». Sospirai. Poi sorrisi di disperazione. Deglutii, ma non avevo più saliva. Avevo una maledetta sete. E la bocca sapeva di sabbia. «Bene! Non mi sono mai sentito così in forma». Il medico sogghignò. «Bravo!». Poi pensieroso aggiunse: «Sei intelligente… forse te la cavi». Si rivolse alle guardie: «Fategli firmare un verbale che ha fatto a botte con gli altri detenuti al passeggio». Poi mi batté la mano sulla spalla e continuò: «Dategli il materasso, lenzuola, coperte, la sua roba personale e una bottiglia d’acqua che ha le labbra riarse dalla sete. […] Dategli pure qualcosa da mangiare e portatemelo in infermeria che gli devo dare dei punti in testa».
Il medico uscì dalla cella. Subito dopo le guardie mi misero davanti alla faccia il verbale con una penna. I loro occhi erano gelidi. Capii che se non avessi firmato sarei morto. C’era scritto che avevo aggredito dei detenuti al passeggio e che le guardie erano dovute intervenire per riportare l’ordine. Il mio cuore non voleva firmare ma la sete e i dolori del mio corpo mi spingevano a farlo. Provai a scrivere il mio nome, ma la penna non aveva intenzione di funzionare. Neppure la penna voleva che firmassi. Intanto mi colarono un paio di gocce di sangue dal naso, che asciugai con la manica della maglietta. Mi diedero un’altra penna. Rimasi un attimo indeciso. Il mio cuore continuò a opporre resistenza, mentre la mano firmava la dichiarazione. Le guardie sorrisero soddisfatte.
Mi diedero subito una bottiglia d’acqua. Ne bevvi una buona metà, l’altra la lasciai per la sera. Mi portarono in infermeria e mi misero cinque punti da una parte della testa e sette dall’altra. […] Quando tornai in cella trovai la mia roba, una pagnotta di pane, delle mele e del formaggio. Una delle guardie, con i baffi folti, prima di chiudermi il blindato mi gridò: «Rimarrai in isolamento per sei mesi». Avevo le lacrime agli occhi, ma le ricacciai indietro. Pensai che ero stato un vigliacco a firmare quella dichiarazione. E per punizione non mi sarei dato il permesso di piangere.
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