«Una volta un direttore di un carcere mi ha detto: “È inutile, Musumeci, che lei scrive e denuncia. Io ho avuto i complimenti dal Ministero perché da questo carcere sono usciti quarantasei collaboratori di giustizia!”. Io credo che questo sia il tema fondante: la tortura finalizzata alla collaborazione e in generale a un’affermazione di forza nel piegare l’individuo. Io sono un’eccezione, ma anche un fallimento per il sistema penitenziario: perché ho fatto un tipo di percorso e non sono riusciti a peggiorarmi. Mentre di norma il 70% delle persone che entra in carcere, in carcere ci ritorna. E quel restante 30% che non ci torna lo fa perché del carcere ha paura, non perché ha fatto un percorso di reinserimento o ha capito delle cose». (Carmelo Musumeci)
Lo scorso 22 giugno alcuni tra attivisti e sostenitori della piattaforma Morire di pena. Per l’abolizione di ergastolo e 41bis sono stati invitati a Roma al Fire – Festival di inchiesta e reportage del Centro di giornalismo permanente.
Nel corso dell’incontro ci si è soffermati sulle ragioni “teoricamente” fondanti, e quindi sull’ipocrisia e l’inumanità di questi due istituti, sottolineando che il percorso che ci sta portando a costruire una campagna per la loro abolizione non può prescindere da una critica complessiva del sistema penale e carcerario. In quest’ottica siamo stati sollecitati a soffermarci anche sui temi degli abusi da parte della polizia, sulle condizioni di vita nei cosiddetti “regimi speciali”, sui meccanismi di “attacco al nemico” che regolano il diritto e l’esecuzione penale oggi.
Proponiamo a seguire alcuni estratti degli interventi di Caterina Calia (sul caso di Alfredo Cospito), Luigi Romano (sulla campagna Morire di pena), di Valentina Calderone e Carmelo Musumeci (su ergastolo e 41bis).
Caterina Calia e Luigi Romano
Valentina Calderone
Carmelo Musumeci

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